Frédéric Bourgeois de Mercey (1840)


 

 

Frédéric Bourgeois de Mercey

     Frédéric Bourgeois de Mercey nasce a Parigi nel 1808 da Louis-Frédéric, vissuto nel regno di Napoli al servizio Gioacchino Murat. Ritornato in Francia alla fine del Decennio, il padre del nostro scrittore si dedicò allo studio delle Belle Arti. Questo clima culturale orientò le scelte del nostro. Inizialmente si dedicò alla pittura specializzandosi nel paesaggio (sue vedute sono conservate nei grandi musei francesi); quindi fu chiamato al ministero dell’Interno come responsabile delle Belle Arti, fino a raggiungere il grado di ministro di Stato. Visitò lungamente la Penisola, in particolare la Toscana e il Mezzogiorno. Uomo politico di orientamento democratico, profondo conoscitore del mondo classico e medioevale italiano, pubblicò numerose opere. Si occupò della Costa in un articolo per la “Revue des Deux-Mondes” del 1840 La République d’Amalfi, riversato, successivamente, nel volume La Toscana e le Midi d’Italie. Notes de voyages, étude et recit (Parigi 1858), accompagnato da un album di incisioni (basate sui numerosi disegni che egli andava riprendendo nei suoi tour), La Romagne et le Midi d’Italia in cui sono incluse sedici incisioni del Salernitano.       

 
     

La Costiera e il Golfo di Amalfi

Il piccolo territorio di Amalfi è uno dei più visitati e il meno conosciuto d’Italia. Ogni anno centinaia di turisti lo visitano in processione. Partono da una città vicina, Salerno o Sorrento e raggiungono in qualche ora Amalfi, alloggiano al Convento dei Cappuccini, e gettano appena un colpo d’occhio sulla città, che trovano orribile; i più giovani e più curiosi vanno a fare una passeggiata ad Atrani e si arrampicano fino a Ravello, ammirano, per la forma, i resti moreschi di questa città singolare: poi i nostri viaggiatori si reimbarcano, non avendo osservato, i viaggiatori, che le viti inghirlandate, gli olivi, le bianche case perdute nella verde ombra degli aranceti, melograni e carrubi, mentre gli artisti si saranno soffermati sul paesaggio dalle linee grandiose…

Attualmente le galere di Amalfi si sono trasformate in barche manovrate da quattro rematori e un timoniere. Queste barche, quando il vento le asseconda un poco, tengono bene il mare e procedono rapidamente. Una di queste imbarcazioni era da poco approdata a Salerno e attendeva dei passeggeri per ritornare ad Amalfi. Dopo aver mercanteggiato a lungo sul prezzo col proprietario, spalleggiato da un astuto compare del posto, prendemmo la barca e in un quarto d’ora, una volta superato il porto di Salerno, costeggiammo gli scogli e la spiaggia di Vietri. Una folla di persone si aggirava intorno ad alcuni bastimenti ancorati sulla spiaggia, altri gettavano le reti, altri ancora imbarcavano e sbarcavano derrate commerciali, perché Vietri, in effetti, è il vero porto di Salerno. Si vedono ancora al centro della marina i resti di una grande torre che serviva a proteggere i bastimenti che si battevano contro i barbareschi. Mentre la barca procedeva lungo la costa, tutti i marinai della spiaggia ci salutarono con grandi schiamazzi, e per non perdere l’abitudine, le loro donne e i loro bambini tendevano le mani dalla riva. Vietri, vista dal mare, presenta uno stupendo colpo d’occhio. I borghi disposti a piani l’uno sull’altro, e di cui alcuni sembrano incollati alla cima delle rocce la cui base si tuffa nelle onde; le case bianche alle quali i riflessi morbidi del mare donano la trasparenza dell’alabastro; le macchie di limoni, di aranci, di melograni dai rami carichi di frutti dorati, i boschi di ulivi, al centro dei quali, appare, distanziata, la cima tondeggiante e di un verde più rigoroso del carrubo naturalizzato su questi lidi; le montagne rivestite dalla base alla sommità, di mirti, di corbezzolo, di arbusti spinosi, e le cime dentellate che si drizzano verso il cielo con una sorta di selvaggia fierezza, tutto ciò concorre a fare di questo angolo del golfo di Salerno, uno dei più seducenti e magnifici paesaggi esistenti al mondo…

La parte della costa che si estende da Vietri a capo Tommolo, è singolarmente triste; presenta grandi chine boscose a piani, o scarpate di rocce calcaree coronate da merli e da obelischi naturali. Di tanto in tanto, le scarpate sono percorse da strette e profonde valli al fondo delle quali ribollono le acque nere di un torrente. All’imboccatura di un torrente si elevavano alcune piccole case senza tetti o dalle terrazze curvate come il coperchio di un sepolcro. Alcune delle case, che ombreggiate da un arancio o un fico, che per dimensione e statura robusta si confonderebbero con delle grandi querce, servono da rifugio a una famiglia di pescatori che asciugano al sole le reti, vicino alla barca ancorata sulla sabbia o pronta a prendere il mare.

Sempre costeggiando, arrivammo ben presto a Cetara, il primo porto della costiera amalfitana. Era quasi mezzogiorno, e una flottiglia di pescatori, composta da una trentina di barche, approfittava della brezza marina per guadagnarsi il largo. Le vele bianche che il vento spingeva nella stessa direzione, dando a ciascuna la stessa forma triangolare, rischiarata dall’ardente sole di mezzogiorno, ravvivavano tutta questa parte del golfo. La partenza dei pescatori, le loro grida di gioia, i canti che essi ripetevano in coro e i ritornelli che si rimandavano da una barca all’altra, donavano al paesaggio di Cetara un inesprimibile colore antico. I ricordi, questo è vero, aiutavano le illusioni; poiché davanti a noi sulla punta elevata di Erchie i nostri marinai ci mostravano le rovine di un tempio consacrato a Ercole che ha lasciato il suo nome al promontorio, e, alla nostra sinistra,  monti di Paestum e Agropoli fermavano l’orizzonte con le loro barriere azzurrine. Cetara ai tempi della repubblica di Amalfi era l’ultimo dei suoi avamposti verso Salerno. Oggi la piccola città, popolata da 2400 abitanti, fa parte del distretto della Cava. Cetara dal IX all’XI secolo, fu, in diverse riprese, occupata dai Saraceni. I suoi abitanti hanno conservato qualcosa della loro origine saracena; il loro viso magro e olivastro, le braccia e le gambe color rame, i canti rudi e gutturali, lo scintillio inconsueto degli occhi neri che brillano come delle stelle sotto i loro bruni cappucci; tutto fino ai vestiti dei pesatori simili ai bernu degli Arabi, completano la rassomiglianza che i loro costumi rendono ancora più perfetta. Cetara è, in effetti, uno dei borghi più malfamati del Regno di Napoli, dopo quelli calabresi. Gli abitanti del golfo ricordano ancora con terrore il brigantaggio e le piraterie praticate, nel 1799, da un pugno di uomini di questa piccola marina; gli abitanti di Salerno e della costa di Amalfi credettero di essere tornati ai tempi in cui Barbarossa e Sinan Bassa infestarono i loro paraggi e davano la caccia ai cristiani nelle loro vicinanze. Se il castigo si fece attendere, esso fu terribile; ma questa volta era ben meritato…

Fuori da Cetara e dalla piccola marina di Erchie, che sembra caduta sotto la grande roccia del tempio di Ercole, l’aspetto della costa diventa orribile. Nessuna traccia di abitazione, nessuna vegetazione, dappertutto immense rocce spoglie dalle forme più bizzarre, le une attaccate alle altre come obelischi da 700 a 800 piedi di altezza, le altre sospese nell’aria come delle volte di archi in rovina sotto i quali uno dei titani della Favola era passato senza piegare la testa. La base delle piramidi e delle rocce, che sembrano discendere dal cielo, s’inabissa perpendicolarmente nel mare. Spinta dai venti dell’Est e del Sud, l’onda si spezza con furia  e corrode le rocce. I fianchi delle rocce offrono dunque, da tutti i lati, delle fessure bizzarre, delle profonde caverne nel fondo delle quali pendono gigantesche stalattiti, o delle grotte strette e tortuose la cui apertura nascoste a metà dai flutti. Il mare, infiltrandosi in questi abissi manda fuori dei rumori sordi e singolari, gridi spaventosi simili ai muggiti di un orso furioso; così il capo che forma queste rocce ha preso il nome di capo dell’Orso. All’estremità di un promontorio, un lungo banco di rocce modellando un a specie di circo, si distacca dalla massa principale; Questo punto, che s’avanza da lontano nei flutti, ha preso il nome di capo di Tommolo. I marinai di Napoli e di Amalfi hanno terrore di ripetere il nome di questi due terribili capi; essi vi raccontano lungamente la storia dei loro compagni che l’orso ha divorato o che dormono nella tomba. Quello che rende questi paraggi tanto pericolosi sono dei banchi di rocce sottomarine, che alla profondità di 2 o3 braccia, si allungano, da lontano, nel mare. Sfortunata la barca, che in giorno di tempesta s’avventuri su questo scoglio! Allorché attraversammo la Secca del Gaetano – era  questo il nome che i marinai davano a questi frangenti – il tempo era magnifico; il mare leggermente agitato dalla brezza, rinfrescava appena il resto del golfo, e tuttavia la nostra piccola imbarcazione attraversava un banco di schiuma che il vento mandava sul viso dalla nostra navigazione  una piacevole apparenza di pericolo. Il rumore delle onde che s’infiltravano nelle caverne ostacolando l’entrata, talvolta risuonava come un colpo di cannone partito dalle viscere della montagna talvolta tuonava come la voce di un orso irritato. Gli strilli dei numerosi uccelli, descrivendo mobili spirali intorno alle gigantesche piramidi di rocce si mescolavano al rumore del mare… Sotto le rocce le torri si scorgono delle piccole cale (è il nome che danno qui alle minuscole anse sabbiose) che sembrano nascoste sotto le montagne, alla cui cima si arriva mediante lunghe e strette rampe. Ai piedi delle rampe è situata qualche casetta bianca senza tetti, che rassomiglia ad un’antica tomba. Davanti ad ogni casetta, sulla sabbia della marina, sono attaccate delle piccole barche intorno alle quali si raccoglie tutta una famiglia di pescatori. La linea accidentata del percorso da Salerno ad Amalfi si disegna nelle montagne, ben al di sopra delle torri e delle cale solitarie. Talvolta la si vede di scendere fino alla riva talaltra arrampicarsi alla sommità delle rocce più elevate, di cui essa contorna arditamente le cime circondate dalle nuvole. Su questa cammino a qualche migliaio di piedi in alto e nell’infinitamente piccolo compaiono, di tanto in tanto, convogli di muli o gruppi di viandanti che si recano da una città ad un’altra. La via, nei pressi della quale la strada Panoramica sembrava tracciata nella pianura, è stata aperta alle vetture solo nel 1841: Amalfi e tutte le borgate della costa l’hanno attesa quattordici secoli.

Dalla torre del Cane, situata sull’ultima punta di Capo d’Orso, si scorge l’intero golfo di Amalfi, che le ricche borgate di Maiori, Minori ed Atrani sembrano incorniciare come una sola città, e che dominano dalle alte montagne coperte di villaggi e di castelli gotici in piedi o in rovina. Maiori, la più ravvicinata delle borgate, è situata in fondo al golfo e all’imboccatura di una graziosa riviera. Maiori non dispone di un porto: i suoi pescatori ancorano le loro barche sulla sabbia, che è magnifica, e, quando la tempesta minaccia, le trainano  a terra con l’aiuto di cabestani. Al centro delle montagne coperte le abitazioni che si elevano al di sopra di Maiori, è situato il curioso paese di Tramonti; si chiama così tutta la contrada compresa tra il Monte Albino, Chiancolella, Falesio e Mirteto. Il distretto sembra un pezzo delle Alpi, rischiarato dal sole dell’Italia. Il clima è delizioso; tre torrenti intrattengono un’eterna freschezza, e i costumi dei suoi abitanti hanno qualcosa di pastorale che li distingue dal resto delle rozze e avide popolazioni della costa. Tredici frazioni o casali sono diffusi nelle valli e sui fianchi delle colline di Tramonti. L’antica torre di Chiunzi difendeva, dal lato nord, i paesi di Tramonti, e proteggeva, dal lato sud, il castello di Maiori. Si scorge questo castello lontano nel mare; l’aspetto è singolare. Le sue muraglie a sei piani, fiancheggiate da torri merlate ad ogni angolo, avvolgono tutta la collina. Le muraglie e tredici delle torri sono perfettamente conservate; si direbbero i bastioni di una città rimasti in piedi dopo la sua scomparsa. Il castello contiene i vasti appartamenti, una cappella, degli arsenali, le prigioni e le scuderie per una piccola truppa. Fu costruito da Raimondo Orsini, principe di Salerno, nel 1457, e grande feudatario del ducato di Amalfi; questa è una delle più complete costruzioni del genere, e non si riesce a spiegare lo scopo di simili opere in luoghi davvero già inaccessibili. Quando finalmente si riesce a superare le orribili rocce di capo d’Orso e del Tommolo, l’aspetto di Majori e dei suoi dintorni è veramente affascinante. Le sue case, di costruzione elegante, che si compongono di archi sovrapposti e mantenute con la pulizia tipica degli inglesi, sono disperse al centro di foreste di vigne, di gelsi, di aranci, di limoni, di cedri e di granati, e di una folla di alberi sempre verdi, carichi di frutti in tutti i tempi. Si direbbe una di quelle città create per l’ immaginazione dei poeti, dove ogni casa è circondata da un giardino incantato.

Majori, a differenza delle altre città, è la borgata della costiera che ha il vantaggio di essere costruita, in gran parte, in pianura, di modo che le sue strade sono più spaziose di quelle di Amalfi, Atrani o della stessa Salerno; la maggior parte dei giardini si affaccia sulla strada principale; un grazioso corso d’ acqua orla questa bella strada. Si attraversa il ruscello su numerosi ponti tutti bianchi, che danno l’aria di un canale di Venezia. Il rumore, il movimento delle acque correnti, i profumi balsamici dei giardini, i rami dorati dei parchi che pendono a culla sulla strada che essi ombreggiano, fanno, di questa parte della città, una delle passeggiate più piacevoli esistenti al mondo. È là che la sera si riuniscono tutti gli sfaccendati della costa, portati da dodici o quindici calessi o carrozze del paese, condannati a non superare mai la distanza da Amalfi a Maiori. La bellezza delle donne di Maiori è rinomata, soprattutto le donne del popolo; queste sono come a Cava, delle bellezze forti e robuste. Così, mentre a mezzogiorno i mariti facevano la siesta, le vediamo sulla piazza svolgere il lavoro dei facchini: caricano e scaricano le barche, portano sulla testa delle travi o delle enormi tavole, aiutandosi con una mano e appoggiandosi con l’altra su un grande bastone. La maggior parte di queste donne sono vestite da Diana: il seno nudo, le gambe nude e i vestiti rialzati molto al di sopra delle ginocchia, affinché l’acqua del mare non bagni la sottana.

Minori sta a due miglia da Maiori, da cui è separata da un piccolo capo, è un grazioso borgo di duemila e quattrocento abitanti.

 

Minori

 

Ai tempi della repubblica di Amalfi era il più importante dei suoi arsenali e dei suoi cantieri di costruzione. I racconti dei cronisti sono pieni di favole sulla natura dei suoi primi abitanti. Il Freccia, un serio giureconsulto, si fa portavoce di questa favola:” Forcella, dice lui (era il nome dell’Antica Minori), borgo alle dipendenze di Ravello, ebbe, in altri tempi, per abitanti degli uomini la cui taglia superava i dieci palmi. Le loro forze erano superiori a quelle dei giganti, e sollevavano fardelli molto pesanti. Ai nostri giorni si vedono ancora, nella chiesa di San Sebastiano, quattro ossa dei piedi e delle braccia di questi giganti”. Oggi la statura degli abitanti di Minori è ritornata a proporzioni più naturali. Solo le donne sembravano discendere dai giganti di cui parla Freccia: esse sono, se è possibile, più forti e più robuste di quelle di Maiori, e riescono a portare delle travi molto più pesanti… La posizione di Minori, ai piedi delle montagne di Ravello, è, probabilmente, più deliziosa ancora di quella di Maiori; la sua chiesa contiene alcuni quadri notevoli, tra gli altri una Resurrezione, di un maestro sconosciuto, e una copia molto bella di un Calvario di Marco di Siena, il cui originale è custodito nella chiesa di San Pietro a Napoli. I giardini di Minori, come del resto quelli di Maiori, abbondano di frutti di tutte le specie; ma i suoi abitanti si dedicano soprattutto alla coltura di una specie di grossi cedri chiamati ponsiri. Niente di più meraviglioso di una bella pianta carica di questi frutti, alcuni dei quali raggiungono la dimensione di una testa. Si potrebbe credere che i desideri dell’uomo di La Fontaine si sono realizzati, e che le querce portano le zucche. I ponsiri di Minori sono superiori a tutti gli altri cedri del regno di Napoli; la durata e il succo, di una squisita acidità, li rendono preferiti agli stessi cedri di Sicilia. Su questi ultimi presentano il vantaggio di poter sopportare lunghe navigazioni; tanto da spedirne in abbondanza a Roma, Livorno, Genova, Marsiglia e anche in Oriente. Sono i ponsiri di Minori che, nel loro paradiso, i Turchi fanno servire agli eletti, su piatti d’argento, da paggi riccamente vestiti.

Amalfi

Più ci si allontana da capo Tommolo, più l’aspetto del paesaggio diventa incantevole. Sembra che da un orrendo deserto si sia passati nella terra promessa. Da ogni parte, belle borgate e graziosi villaggi stanno raggruppati sui pendii delle colline o s’elevano, con un anfiteatro, fino alla sommità delle montagne. Cinque di questi borghi sono disposti uno sull’altro: Villamena su Minori, Ravello su Villamena, San Martino su Ravello e infine Cesarano su San Martino. Quest’ultimo villaggio, sperduto nelle nuvole, alle quali si mescolano i fumi delle sue case, è costruito su uno dei picchi più alti del monte Celebro; le sue donne sono apprezzate per la loro bellezza e la facilità dei loro costumi: è un nido d’aquila abitato da donne bellissime. Prima di questi villaggi, all’entrata di una valle così stretta e così buia che si scambierebbe per la bocca di una vasta caverna, si intravede Atrani. Le sue case occupano il fondo di un burrone dove sono mirabilmente raggruppate sulle rocce, ai due lati del paese. La casa più elevata, a destra del burrone e non lontana da una cappella attaccata alla rocca, all’ingresso di un immensa grotta, è l’abitazione del famoso Masaniello. Per un pescatore, la sistemazione era scelta in maniera stravagante; la posizione aerea isolata sarebbe stata  più conveniente alle meditazioni di un eremita. Tuttavia, dubitiamo fortemente che Masaniello, sulla sua rocca isolata, meditasse la liberazione del suo paese. Atrani, non è altro che un pezzo di Amalfi separato dal resto della città da un piccolo capo sulla cui estremità si elevava una torre in rovina. La bella strada, da Amalfi a Maiori attraversa Atrani su degli alti e solidi archi costruiti all’ inizio del paese, le cui fondamenta partono dalla spiaggia. Gli archi si elevano all’altezza dei tetti delle case del quartiere e hanno la solidità di un’opera romana. La piazza pubblica di Atrani, che si estende su un piccolo spazio lasciato vuoto dietro le belle arcate, serve da rifugio alle barche quando soffia lo scirocco e il mare diventa minaccioso. Con l’aiuto di cavi e cabestani, le barche e le stesse piccole navi sono trainate sotto gli archi che sostengono la strada e di là ormeggiate sulla piazza che, in alcune ore della giornata, viene trasformata in porto. Questo porto appare arrangiato soprattutto se si pensa che una volta Atrani era una dei principali bacini di Amalfi, laddove ormeggiavano numerose galere e il mare per una grande distanza era coperto di banchine e di opere che ricongiungevano le due marine; l’immensa costruzione non ha lasciato alcuna traccia. Consumata dal mare, la roccia alla quale era indubbiamente appoggiata è viva, piena di cavità formate dai flutti che la corrodono e non lasciano scorgere alcuna traccia di lavoro umano. Tuttavia, mi hanno assicurato che all’altezza della torre in rovina che si eleva sulla torre del picco capo situato tra Amalfi e Atrani, si vedevano, quando il mare era perfettamente calmo dopo le tempeste che avevano smosso profondamente il fondale, dei grossi blocchi di pietra tagliati dalla mano dell’uomo, simili ai resti di un molo. Non avendo mai avuto Amalfi un porto naturale, le costruzioni dovettero essere molto consistenti, poiché più di duecento galere viravano qualche volta per ripararsi dietro a questi bacini, per non contare le numerose flotte mercantili. La città stessa, con la sua popolazione, che era ancora di 50000 abitanti all’inizio del XVI secolo, vale a dire ai tempi della sua decadenza, copriva, senza dubbio, una estensione maggiore, invasa oggi dal mare. Ciò che resta ora di Amalfi non è che la decima parte dell’antica città, poiché la sua popolazione non supera cinquemila abitanti. È vero che, ai tempi della sua prosperità, tutti i paesi della costiera, da Capo Minerva al porto di Cetara, contavano intorno ai cinquecentomila abitanti, e che adesso raggiungono appena i trentaduemila.

È solo dopo aver superato il piccolo capo di Amalfi che la città appare tutta intera, ma come uno spettro; le sue case, di cui un gran numero somiglia piuttosto a delle rovine che a delle abitazioni, si estende, a semicerchio, dalla punta del Capo a mezza altezza delle rocce che, dall’altro lato del Canneto, dominano la città.

 

Amalfi

 

L’alta torre di una chiesa, sormontata da una cupola, si mostra dietro alle case, davanti alle quali si estende un pezzo di lungomare deserto e una piccola spiaggia dove sono ancorate alcune barche. Ecco dunque Amalfi, sovrana del mare, rivale di Venezia, questa Tiro del decimo secolo! Dove sono le sue fortificazioni, i suoi cantieri e le sue numerose galere, la sua industriosa popolazione? Non resta più niente: la città che raccolse le Pandette, che fondò la legislazione marittima, che perfezionò e divulgò l’uso della bussola, questa città ha perduto tutto, tutto, perfino la sua moneta, la sola che, durante tre secoli, ebbe corso in oriente; perfino i suoi colori, un tempo così gloriosi: lo stendardo purpureo dei Romani, antenati degli Amalfitani, blasonato della croce bianca in campo nero dei cavalieri ospedalieri, un’altra fondazione di Amalfi. Costeggiammo tutta la città prima di arrivare al posto dove dovevamo sbarcare; fu questione di alcuni minuti durante i quali la vista di una barca carica di numerosi stranieri fece rinascere una qualche apparenza di vita sulla spiaggia e sul lungomare. Un’armata di facchini, uscendo da piccoli passaggi a volte praticati nelle montagne e correndo attraverso le rocce, veniva ad attendere la nostra barca: le braccia nude, le gambe nell’acqua, e lanciando grida feroci, come se si fosse trattato di respingere ad ogni costo la discesa di un corsaro o di saccheggiare dei naufraghi. La barca era appena ancorata, che subito i viaggiatori e i bagagli vennero portati via e depositati sulla spiaggia. Là ci attendeva il grosso della truppa con delle lettighe che portavano otto uomini; opponemmo una viva resistenza per non essere seduti apposta e sollevati. Tutto ciò accadeva poiché noi avevamo scelto per alloggio il famoso convento dei Cappuccini, ora soppresso, costruito sulle rocce, all’entrata di una vasta grotta al nord della città, e, per raggiungerlo, è necessario inerpicarsi per circa tre volte l’altezza del Notre-Dame.

Una volta arrivati là, fummo, è vero, ben ripagati delle nostre pene per la singolarità del posto e per l’ammirabile veduta di cui godemmo; ma, prima di lasciarsi andare al piacere, bisognava sbarazzarsi dei venti facchini che avevano portato i nostri modesti bagagli, e ciò non era cosa da poco: ciascuno di loro reclamava un ducato per le sua fatica, e molti non avevano diritto che a un carlino. Gettai una piastra verso di loro gridando: arrangiatevi. I battellieri che ci avevano condotto lungo il difficile tragitto da Salerno ad Amalfi non avevano chiesto di più. Non si possono immaginare le grida di orrore che uscirono dal gruppo dei facchini alla vista della piastra: la gettarono a terra, la calpestarono con un’aria superba; in fine l’esposizione della loro collera non durò meno di una mezz’ora, l’albergatore non osava metterli alla porta. Ma tutto ad un tratto una nuova barca era apparsa all’entrata del porto, i barcaioli raccolsero lestamente la piastra tanto disprezzata e corsero verso la spiaggia. Una volta che si furono allontanati, l’albergatore mi assicurò che gli avevo dato una metà in più del prezzo.

L’albergo-convento di Amalfi è conosciuto da tutti turisti, avendo fatto ognuno, senz’alcun dubbio, il suo pellegrinaggio obbligato.

 

Cappucini

 

Nel 1815, il numero dei frati era ridotto fortemente, e si erano riuniti in un altro convento; questo fu abbandonato, e un industriale si stabilì nel fabbricato, che trasformò in hotel, senza toccare la cappella. L’albergo è più curioso che comodo: sono stati soppressi dei tramezzi e di due celle ne hanno fatto una camera dove si sta ancora troppo stretti; il parlatorio è stato trasformato in un piccolo salone e il refettorio in sala da pranzo. Vecchie pitture decorano i muri a metà imbiancati. Non erano numerose le graziose Suore che vennero a sedersi ai tavoli del refettorio e a coricarsi nelle celle dei padri, potrebbero ritenersi frati cappuccini, essendo la cena quasi frugale come per il passato e la pulizia pressappoco la stessa. Non dovevamo dunque sparlare questa volta, cosa che consola più di tutto, poiché si moriva di fame in eccellente compagnia. Tutti i pari inglesi hanno dormito in queste celle, tutta la nobiltà italiana, tutti i viaggiatori francesi, alla rinfusa si sono dati qui appuntamenti. Durante i dodici giorni che abbiamo vissuto in pensione, abbiamo visto passare pittori, poeti, ufficiali, diplomatici e lo stesso Mounsieur Rothschild, vivere a regime e risvegliato al mattino, nella sua cella da una capra, che gli faceva da nutrice. Ciascuna cella dispone di una piccola finestra scavata nella spessa muraglia. Da ognuna di queste celle si scorge solo il mare, si direbbero il portello di murata di una nave. Una pietra lanciata, dalle finestre, con forza, andrebbe a cadere a 500 o 600 piedi sotto di noi nella piccola ansa dove siamo sbarcati. Le acque di questa parte del mare erano di una trasparenza meravigliosa: si potevano contare le conchiglie, il muschio e i ciottoli dai colori brillanti che tappezzavano il fondo. E sporgendosi fuori dalle finestre, si gode di un’immensa veduta: a sinistra, si scopre la città, il porto e delle alte rocce coronate di torri; al centro, le montagne di Maiori, il capo Tommolo, il capo di Paestum e le montagne della Calabria; sulla destra, la vasta distesa del mare. Questo convento, in principio, fu un’abbazia fondata ai tempi della grandezza di Amalfi; fiorì nel XII secolo, sotto il nome di abbazia di San Pietro a Toczolo o Toczolano, allorché il cardinale Pietro Captano vi stabilì un ordine religioso consacrato a San Pietro, e al quale Federico II fece dono di un diploma che porta la data del 1212 e che esiste negli archivi di Amalfi, di una rendita di 1000 tarì d’oro da prelevare nei domini di Tropea. Quest’ordine religioso abitò l’abbazia per circa tre secoli; ma essendo cessato il pagamento dei 1000 tarì, l’abbazia fu trascurata e i suoi edifici cominciarono a degradarsi allorché, nel 1583, gli Amalfitani invitarono il padre don Inigo d’Avalos a trasferirvi alcuni cappuccini di cui egli era il generale. I cappuccini vi soggiornarono fino alla soppressione del convento, nel 1815. la vicinanza di una vasta grotta, in fondo alla quale, secondo il costume del tempo, essi potevano elevare un calvario, aveva, senza dubbio, spinto i fondatori dell’abbazia e collocarla su questo pendio scosceso della montagna. Recintarono le terre coltivabili con dei muri, realizzarono delle terrazze, e, sui poggi, crearono dei veri giardini sospesi, con piante di viti, d’aranci e di fichi. La posizione degli edifici del convento è tanto più piacevole quando, alle due di pomeriggio, sono riparati dal sole che si corica dietro le immense montagne alle quali si addossano, di modo che, anche durante le giornate più calde dell’estate, si gode, per una buona parte del giorno, della più piacevole frescura. Gli operai arabi, che costruirono tanti curiosi edifici su tutta la costiera, avevano, senza dubbio, partecipato alla costruzione dell’abbazia. Il chiostro del convento è interamente moresco; su ciascuna delle sue facciate interiori, delle piccole colonne binate, in marmo bianco locale, sostengono delle volte ogivali che si intrecciano di tre in tre, formando una sorta di ricamo reticolare di un effetto grazioso. Al di sopra del delizioso colonnato e di questi ricami, si elevano alte muraglie bucate, su ciascuna delle facciate, da piccole finestre ad ogiva binate. La volta della porta principale del chiostro che è posta di fronte alla grotta e le finestre della muraglie mezze rovinate della sua antica cappella sono anch’esse ogivali. Una cappella più moderna è stata aggiunta, non è che un secolo e mezzo, agli edifici del convento; la cappella è databile dal detestabile gusto dell’epoca; attualmente in pieno abbandono…

Dopo aver preso possesso della mia cella, mi diedi da fare per raggiungere la città. Mi era sovvenuto il ricordo del passato, e una curiosità mi aveva vivamente eccitato. L’avevo già e la cercavo ancora; avevo seguito gli stretti sentieri costruiti sui bordi della roccia non dubitando molto che ciò avvenne durante il lungo cammino da Napoli a Castellammare. Avevo disceso abominevoli scalinate disposte in disgustosi passaggi; avevo superato delle volte oscure, attraversato una piccola piazza occupata da un popolo cencioso, sulla quale si elevava una chiesa, il solo particolare che ebbi a rilevare nel corso della mia discussione. Al di là della piazza e della chiesa avevo ritrovato le volte, i corridoi, le viuzze, scure e sporche, ed ero arrivato al fondo del burrone senza aver scorto una strada o intravisto una casa degna di questo nome. Era dunque là tutto quello che rimaneva della magnifica Amalfi? Che cosa sono, in confronto di un simile degrado, l’abbandono di Venezia e la solitudine di Pisa su cui i viaggiatori ci intrattengono? Non di meno queste città sono ancora in piedi, e si può leggere sui muri dei loro palazzi la storia dell’antico splendore. Ma cosa resta del passato di Amalfi? Niente al mondo. La piazza dove la città fu costruita non esiste che in minima parte; il mare se ne è impadronito; così il viaggiatore, percorrendo gli stretti burroni che riempiono la borgata moderna, ad ogni passo si domanda: dove dunque, tra queste rocce, hanno potuto costruire una città? dove dunque cinquantamila abitanti trovarono alloggio? Al ritorno, un cicerone che mi aveva spiato si era attaccato a me; voleva farmi, a viva forza, gli onori della città,  e segnalò alla mia ammirazione due palazzi costruiti sulla sola estremità del molo che ancora esisteva. I palazzi di Amalfi moderna sarebbero, in qualsiasi altro posto, delle case molto ordinarie. La prima è stata costruita molto recentemente e non è stata ancora ammobiliata; l’altra, fiancheggiata ad ogni angolo da una torretta pitturata, coperta in maiolica dipinta, e sui cui muri hanno imbrattato un cielo, degli aranci, e degli uccelli, serve da albergo agli abitanti del porto. Dietro le case e alla foce del Canneto, ho scorto infine alcune volte antiche; è là che hanno costruito delle cartiere e dei mulini ad acqua, solo questo resta oggi di Amalfi. La cattedrale,che mi avevano tanto vantato, è ben lontana da meritare questa reputazione. È un edificio bizzarro che non può essere ritenuto antico, essendo stato riparato e restaurato numerose volte dopo la sua fondazione, l’ultima agli inizi del XVIII secolo, quando l’arcivescovo di Amalfi, Michele Bologna, la fece ricostruire quasi interamente. Bisogna escludere la facciata e le porte di bronzo, che sono veramente curiose, le sole ad essere sfuggite alla trasformazione dell’edificio. Si arriva di fronte alla facciata attraverso una grande scala che domina su tutta la larghezza dell’edificio e che raggiunge quasi la metà della sua altezza. La chiesa è elevata su una piattaforma elevata, alla quale conducono le scale, come un tempio greco sul suo stilobate. La facciata è di gusto moresco; si compone di un vestibolo coperto, sostenuto da un gran numero di colonne di marmi di caratteri diverso, i cui capitelli sono tutti differenti: alcune di queste colonne sono antiche. Delle ogive intrecciate, come le ogive del chiostro dei Cappuccini, si posano su questi capitelli. Le nervature delle ogive sono dipinte di bruno e si distaccano come un ricamo nero sulla muraglia bianca… A giudicare dalla lista che ho sotto gli occhi, Amalfi; al tempo della sua grandezza, aveva un numero di chiese pari a quello delle case che ci sono oggi. La maggior parte delle chiese sono andate distrutte, e non ne resta che qualche traccia. A destra della cattedrale e sullo stesso piano della facciata, da cui è separata da uno stretto intervallo, si eleva la torre del Campanile, la cui costruzione rimonta al XIII secolo (1276). La torre è di un’architettura assai singolare; così l’ultimo piano, che è di forma circolare, mentre il resto della torre è quadrato, è circondato di colonnette  a sostegno di una cupola con bussola e lanterna. Nel piccolo spazio compreso tra la torre, la chiesa e la montagna è situato il Camposanto di Amalfi, volgarmente chiamato il Paradiso; era lì che i suoi più illustri cittadini erano inumati. Attualmente il cimitero è abbandonato, e, senza alcun dubbio, è stato spogliato nei tempi più remoti, poiché non si vede più uno solo dei sarcofagi, una sola delle lastre tombali sotto le quali dieci generazioni riposano. Del cimitero non resta che  il suo chiostro, ornato di piccole colonne accoppiate…                    

È ancora una delle popolazioni più attive del regno di Napoli e quella che probabilmente fornisce i migliori marinai, ma è anche afflitta, più di ogni altra da due vizi che degradano il popolo napoletano: la mendicità e il furto… Nelle montagne, nei pressi della città, se ci fermavano per disegnare, ben presto dei curiosi accorrevano tendendo la mano: se per combinazione, presi dal lavoro, avevamo un momento di distrazione e cessavamo di essere in guardia, coltellini, matite, pennelli sparivano per incanto. Un pittore napoletano ci ha assicurato che audacia borsaioli erano stati capaci di togliere le viti e le cerniere da una cassetta da pittura che durante il sonno aveva dimenticato nelle sue vicinanze. C’è di più, ci hanno raccontato che dei viaggiatori che si erano addormentati nelle montagne si erano risvegliati senza stivali o con un abito trasformato in una giacca rotonda, essendo stati portati via i lembi e le tasche. Si vede che la costiera di Amalfi, a giusto titolo, è soprannominata la costa dei Ladroni! La mendicità di questi tipi buffi prende le forme più deviate e più divertenti. La loro tenacia vi rivolta, e voi siete stupiti di cedere e di donare all’uomo che ad ogni momento vi avrebbe volentieri picchiato. Vi seguiranno tre miglia con un’arancia o una granata nella mano: bisogna prenderla e pagarla, altrimenti non vi lasceranno per tutto il giorno e né vi lasceranno un momento di solitudine e libertà. Se voi portate un libro o un taccuino, tre o quattro giovani gagliardi vi avvicineranno e vi solleveranno a viva forza. Voi credete di aver a che fare con dei banditi, niente affatto; queste sono persone servizievoli che reclameranno il loro salario. Altre volte, una frotta di ragazzi e ragazze vi circonda, conducendo un povero muto, o un cieco di cui vi dipingono la miseria e le infermità nella maniera più straziante: vi lasciate intenerire, donando qualche piccola moneta; ben presto il muto riscopre la parola, il cieco la vista, e tutta la banda si mette in fuga ridendo. Il piccolo numero di gente per bene del paese avverte come una vergogna queste abitudini che tentano vanamente di estirpare: le idee retrograde o, se preferite meglio, la politica di un clero potente, l’assenza dello spirito pubblico, e al disopra di tutto l’egoismo di coloro che vivono nell’agiatezza, rendono tutte le riforme impossibili. La quinta parte della popolazione di Amalfi è composta da facchini; è un’altra specie di medicanti; si potrebbero definire medicanti che lavorano. Essi non mancano di lavori pesanti in un paese dove tutto, anche l’uomo, deve essere trasportato sull’acqua. Il cammino da Amalfi a Maiori è, come abbiamo visto, la sola via del paese aperta alle vetture; le altre strade non sono che sentieri di montagne formate, per la maggior parte, di scalinate sovrapposte, di modo che, per recarsi da un punto all’altro, per salire si deve spesso fare una marcia di tre o quattromila scalini. Gli asini e i muli sono molto ben ammaestrati ad inerpicarsi senza inciampare, e di conseguenza senza pericoli per i viaggiatori. Quando si tratta di discendere, è un’altra cosa; l’animale ha il piede sicuro e non batte ciglio, ma i suoi zoccoli di dietro si trovano, per la maggior parte del tempo, a livello delle sue orecchie. Bisogna mettere forzatamente piede a terra se non si vuole passare al di sopra del collo della bestia e rotolare nei precipizi; si deve dunque cercare un altro mezzo di trasporto, e la portantina ha rimpiazzato  l’asino e il mulo. La portantina non è altro che un baldacchino che sostengono quattro uomini, le persone ricche dei borghi montani hanno i loro portatori; gli altri li noleggiano, e questi sono facchini che sono impiegati per tale opere. Nell’estate, al momento del passaggio dei viaggiatori, i facchini di Amalfi fanno fortuna; nei sentieri impraticabili, i viaggiatori si vedono, in effetti, costretti, le donne soprattutto, a camminare alla cinese o piuttosto alla romana, poiché la portantina di Amalfi non è altro che l’antica lettiga romana trasformata o aggiornata. Ciascuna delle carovane di viaggiatori, forma, nel mezzo della montagna, un quadro molto singolare. Mentre un grosso canonico passa lestamente sulle spalle dei suoi due portatori, vedete la metà della popolazione del paese riunita attorno alla portantina di qualche fragile Inglese, contendersi una stanga della lettiga facendo finta di piegarsi sotto il fardello. Questa è ancora una sorta di mendicità camuffata; lo straniero o i suoi accompagnatori che avranno trascurato di stabilire le condizioni alla partenza e di limitare il numero dei portatori, al ritorno, dovrà pagare tutta questa gente o un combattimento.

Il Canneto, torrente che nasce ai piedi del monte Cerreto e che gli storici amalfitani hanno fregiato con nome di fiume, è appena più largo del ruscello dei Gobelins. Ma, nel corso di meno di due leghe, faceva girare numerose officine di cui alcune non erano prive d’importanza; sono delle manifatture di carta, ferro o di sapone. Le cartiere sono in numero di sedici, e, in verità, fabbricano quantità considerevoli ma di qualità secondaria. La principale industria del paese è la lavorazione dei maccheroni e dei diversi tipi di pasta, le più stimate del regno di Napoli. La officine riunite occupano un numero di operai che non è determinato, ma il cui salario, ogni settimana, non è inferiore a mille ducati. La forgia e le cartiere si raggruppano in una maniera molto pittoresca al fondo del burrone gettando i loro ponti e i loro fabbricati da una riva all’altra del torrente. I fabbricati e la valle sono dominati, da tutti i lati, da rocce di un’altezza inimmaginabile; dalla sommità delle rocce al fondo del burrone sono tesi degli enormi cavi lungo i quali discendono grosse fascine simili a grandi uccelli che si precipitano nel vallone; questo è un mezzo di trasporto rapido, economico e molto in uso nel paese. La legna di tutte le punte superiori delle montagne è portata in tal modo nella valle, dove i muli e le donne la trasportano alla riva. Cinque villaggi o casali dipendono attualmente da Amalfi, che una volta riuniva tutta la costa. Sono i villaggi di Pogerola, Pastina, Lone, Vettica Minore e Tovere. Tutti e cinque sono situati sulla riva destra del Canneto, alcuni sulla sommità delle montagne, gli altri ai bordi del mare.