Ferdinand Gregorovius (1856)


 

 

Ferdinand Gregorovius (1821-1891)

    
Ferdinand Gregorovius (1821-1891), tedesco, è uno dei principali storici del medioevo dell’Ottocento, autore della monumentale Storia della città di Roma nel medioevo. Per i suoi interessi di studio soggiornò a più riprese in Italia e dai suoi soggiorni ricavò una lunga serie di opere frutto di rapidi appunti di viaggio che seppero offrire uno sguardo nuovo sul nostro Paese e in particolare sulla Campania e sulla Costa d’Amalfi, oggetto di un suo ampio tour nel 1856, pubblicato nel 1861 (Siciliana. Wanderungen in Neapel und Sizilien, Leipzig 1861); da sottolineare che lo storico tedesco è tra i primi ad usufruire della nuova arteria di collegamento inaugurata solo da qualche anno: il viaggio diventa più comodo ma offre anche nuove vedute e spunti di riflessione al viaggiatore che in carrozza percorre la Costa; il racconto si conclude ed è incentrato su Ravello; questa è tra le prime volte che Amalfi viene soppiantata da un’altra città, che diviene il vero perno della descrizione del viaggio di Gregorovius.

 
     

Chi ha percorso la costa del mare, da Salerno ad Amalfi, ricorderà con gioia quella sponda. Non vi è niente di più bello nei paesi napoletani. Di tutte le passeggiate che feci in Italia è quella che mi lasciò il ricordo più vivo. La strada costeggia la riva, molto in alto, dato che sale lungo la costa come una spirale. A destra si elevano le cime montagnose e, fra queste, si stendono valli verdeggianti con molti paesi, al di sotto è il mare azzurro e, guardando lontano, l’occhio si posa sulle onde marine, su Paestum e le montagne calabresi fino a capo Licosa, dove la costa fa costa fa una svolta dopo il golfo di Policastro e si nasconde per poi sparire.

Il primo paese su questa strada è vicino Salerno e si chiama Vietri. La posizione di questa cittadina mi ricordò Tivoli. Vi è tagliata una profonda e gigantesca gola, nella quale si precipita un corso d’acqua che alimenta molti mulini. Vietri si trovo sull’orlo, bizzarra con le sue case color marrone con chiese, cappelle a cupola. Molto in basso, sulla bianca spiaggia si vede la marina con barche a vela. Quasi ognuna di queste località, che si elevano così in alto sopra il mare, possiede un suo porticciolo. Vi si svolgevano placide scene di pescatori che sono più belle in natura che su tela. E quando si guarda dagli scogli nelle onde verde smeraldo, le barche vi sembrano sospese come sull’aria. Il vedere tante torri sul mare e tante fortezze sulla cima delle rocce sveglia i ricordi e fa pensare ai tempi dei Normanni quando fondarono su queste regioni il loro singolare regno, avvenimento rilevante nella storia della cultura, che ebbe ripercussioni in oriente come in occidente…

Ma ora siamo giunti a Cetara, sulla costa, una località incantevole, una oasi fruttifera elisia in mezzo alla ruvida massa di montagne rocciose.

 
 

Notai subito la pittoresca architettura moresca. Le case sono piccole, ad un piano solo, provvedute di logge e verande alle quali si arrampicano le viti. I tetti sono a volte e intonacati di nero. La bizzarra architettura delle chiesette risalta fantasticamente dallo scuro fogliame degli aranci. Era una vista così singolare che si poteva credere di essere a Kairwan in mezzo ad una civiltà non europea. Tutto sfavillava dello splendore del sole, dai frutti dorati ai fiori esotici. Le bianche case con le loro verande erano come avvolte in una rete di verde lussureggiante. Nessuna traccia di sporcizia, tutto era pulito e grazioso come le arance, i carrubi e le more e di carattere esotico come il cacto a spine, coperto di fiori e gli altri arbusti di aloe. La bella Cetara fu il primo luogo su questa costa dove si stabilirono i Saraceni, per fondare poi colonie fino ad Amalfi, passando per Maiori e Minori e fino a Scala e Ravello… Si fissarono di nuovo a Cetara nel 880, e, nello stesso anno la repubblica di Napoli donò loro un territorio sul Sebeto; si stabilirono anche ai piedi del Vesuvio, nelle contrade classiche di Pompei ed infine anche vicino al Garigliano da dove percorsero tutta la Campania. Nelle vicinanze di Paestum fondarono la loro colonia ad Agropoli. Non abbandonarono quelle regioni nemmeno ai tempi del dominio normanno. Molti erano diventati cristiani, altri rimasero al servizio di Ruggero, e così portarono nel paese di Salerno costumi e cultura orientali. Il nome stesso di Cetara sembra Arabo e rassomiglia a chitarra.

Il sole bruciava già forte sulle rocce nude lungo le quali continuavamo a camminare di buon passo, e la strada era ancora lunga fino ad Amalfi. Da qui la costa diventa sempre più bella. Sommità montagnose che sembrano raggiungere le nuvole si elevano ripide; il loro color rossastro, nella luce risplendente del sole che rendeva sempre più azzurro il mare ai nostri piedi, contrastava meravigliosamente con il cielo e le onde marine. Su alcune cime montagnose si elevano le rovine nerastre di antichi castelli del periodo normanno che un tempo proteggevano le località che si trovano sotto i monti. Al fondo scorgevamo, in mezzo ad un silenzio incantevole, nascoste fra i giardini ed appoggiate ai monti, Maiori e Minori, cittadine simili alla moresca Cetara.

La spiaggia vicino a Minori e Maiori è la cosa più squisita che ci offrano le sponde del Golfo di Salerno, Amalfi e Sorrento, e, a rischio di essere accusato di eresia dirò arditamente che la loro posizione è di gran lunga più bella di quella di Sorrento. In nessun luogo vidi località di una tale grazia. Prima si trova Maiori, costruita nel nono secolo da Sicardo di Salerno. La sua marina è circoscritta da una spiaggia stretta, bianchissima con sabbia molto fine. Sopra prendono giardini dalle montagne a terrazze. Attraenti le graziose case bianche ognuna delle quali sembra una villetta. In alto si eleva un castello. I sentieri e le strade più tranquilli si perdono nella montagna, dalla quale scaturisce un’allegra cascata. Lo spirito viene afferrato da questa solitudine incantata ed in ogni viandante almeno un’estate. Ed il nordico in particolare sente intensamente questa “figiakasta”. Eravamo seduti in una graziosa osteria, decorata da dipinti, vicino al mare, in compagnia di bicchieri di vino e di un bel piatto di fichi scuri e di arance dorate. L’aria calda, il respiro del mare ed il profumo dei fiori ci rendevano sonnolenti.

Anche Minori ci ristorammo in un caffè. Le case qui sono minuscole e graziose come quelle pompeiane. La stanzetta era così piccola che quattro persone non vi potevano prender posto comodamente. Al banco c’era l’oste il quale con uno scacciamosche in mano cacciava via le mosche e ci sventolava, raccontandoci nel dialetto del luogo una infinità di storie, specialmente sui maccheroni che vengono fabbricati qui come su tutta la costa amalfitana ed approvvigionano tutto il Regno di Napoli.

Sotto il calore del sole pomeridiano scalammo le montagne fino a Minori, girammo intorno ad un promontorio e vedemmo davanti a noi Atrani, che è separata da Amalfi da una gigantesca roccia. La posizione di Atrani sorprende per la sua grandiosità. Sulla costa più alta, le cui rocce giungono fino alle stelle, la città si ammassa come una piramide verso la montagna. L’architettura pittoresca delle case con le loro logge rende l’aspetto ancora più singolare, ed abbagliante è il bianco dei muri sullo sfondo nerastro delle rocce. Queste, ai lati del paese, si dividono in due gruppi, attraverso i quali si stende una verde vallata. Le rocce sono incoronate da torri e da castelli. In alto, tra le fessure del pietrame, cresce la palma a ventaglio. Tutt’intorno, sulle ripide pareti dei monti si trovano altre località, verso le quali si sale con grandi sforzi, situate come sono in un isolamento roccioso assai selvaggio; però anche a questa altezza son ancora circondate da viti e dall’ombra dei castagneti. Molto al di sopra di Atrani si trovano Pontone, Minuto, Scala e Ravello.

Fra queste località Ravello si distingue per suoi ricordi saraceni. Si sale da Atrani su uno scomodo sentiero, attraverso le gallerie coperte e si prosegue su un cammino romanticissimo attraverso un pietrame roccioso, sempre fra vigneti, carrubi e castagni. Più si sale e più incantevole diventa la vista sul mare. Al di là delle rocce color marrone si guarda nelle onde azzurre che sembrano penetrare fra le bizzarre cime montuose di Pontone. Sotto i nostri piedi si stendono pendii verdeggianti disseminati dalle abitazioni di uomini pacifici, che oramai nessun Saraceno turba più.

Arrivammo al convento abbandonato delle Clarisse e subito notammo l’architettura moresca della cupola. Ci dirigemmo poi verso Villa Cimbrone, la casa di campagna di un ricco napoletano, celata da oleandri e rose situata in un punto ardito della roccia a picco sul mare. È una villa incomparabile e rimasi soprattutto entusiasto per il suo pergolato che percorre l’intero giardino. Il tetto retto da pilastri bianchi avvolti nel fogliame delle viti era colmo di uva matura; nel giardino ben coltivato crescevano i più bei fiori immaginabili, provenienti da innumerevoli piante del Sud, nel pieno splendore del sole di luglio. Sull’orlo delle rocce vi era un belvedere, circondato da orribili figure marmoree, il cui effetto però da lontano era abbastanza buono. Si scorgeva il mare scintillante steso all’infinito, le coste della Calabria con le loro sommità montane argentee, la potente e saliente punta di Conca e lo scuro Capo d’Orso vicino a Maiori. Tutti questi monti sono stupendi nelle loro forme slanciate, simili a statue di bronzo. Sì, è un panorama di un valore incomparabile; ed in questo luogo è meglio ammirare e tacere che parlare. Quando si guarda da quel giardino di Armida pieno di rose e ortensie in quel mare di sirene che sembra essere un secondo cielo soffuso di luce, allora nasce il desiderio di poter volare. Credo che Dedalo ed Icaro si trovassero in una beata calma serale, in un simile promontorio roccioso a picco sul mare di Creta, quando furono avvinti dal desiderio di volare; allora si alzarono e si fecero le ali di cigno.

Continuammo la salita verso il chiostro di Sant’Antonio. Anche questo è moresco, con piccole colonne decorative disposte in archi spezzati. Entrammo poi nell’antica Ravello e ad un tratto, in mezzo a queste rocce selvagge, ci trovammo dinnanzi ad una città moresca che con le sue torri e case dai fantastici arabeschi offriva un aspetto completamente arabo. Essa è costruita in tufo nero, isolata ed abbandonata nel deserto verdastro della montagna. Qui il mondo è scomparso; non vi è niente altro che alberi e rocce. Al di sotto di noi, a distanza irreale, il mare purpureo. Nei giardini, torri alte e nere, bizzarre architetture di stile moresco con arabeschi semidistrutti sopra le finestre e sopra le graziose, piccole colonne negli archi.

Sul mercato, accanto alla chiesa, si eleva una antica casa moresca, anch’essa di tufo nero ed adorna di arabeschi. Due singolari colonne la chiudono agli angoli. Il tetto posa su un cornicione a volte. Questo edificio porta il nome di “Teatro moresco”. Era senza dubbio uno dei palazzi degli antichi signori di Ravello. Perché questa città oggi deserta era un tempo una fiorente colonia di Amalfi e contava trentaseimila abitanti. Ricche famiglie trapiantarono qui i lusso che doveva scaturire dall’unione con l’Oriente e con i Saraceni di Sicilia. Particolarmente potenti erano gli Afflitti, i Rogadei, i Castaldi e soprattutto i Rufolo. Quei signori si costruirono splendidi palazzi in giardini meravigliosi, con fontane zampillanti in cui nuotavano pesci; tutto era costruito in puro stile arabo e furono architetti arabi ad eseguire quelle costruzioni.

Avvenne così che Ravello fu una delle prime città d’Italia meridionale influenzate dall’architettura puramente moresca ed è oggi una delle poche che ne abbia conservato i resti. Trovai, nella piccola Ravello, quasi tante costruzioni moresche quante a Palermo stessa, i cui castelli di Cuba e Zisa sono scomparsi lasciando solo le mura di cinta. Perciò il palazzo Rufolo a Ravello è una vera e propria miniera di architettura saracena di quell’epoca e di quelle regioni. Si trova in un giardino ed appartiene da tre anni all’inglese Sir Francis Nevile Reid, che lo fece liberare dalle macerie.

 
 

Questo bel palazzo può essere chiamato una piccola Alhambra; è una costruzione di più trecento stanze disposte in tre piani, tutti sorretti da colonne in stile moresco. Le sale sono riccamente adornate con arabeschi e reca una forte impronta di caratteristiche siculo-arabe. Dovevano essere di uno splendore favoloso. Accanto troviamo ancora una rotonda di stile saraceno in mezzo ad un giardino, un avanzo di mura ed una torre quadrata. Archi e logge semisepolte lasciano supporre che esistessero anche altri impianti di bagni e cortili che dovevano aver formato un insieme ben chiuso e, allo stesso tempo, somigliante ad un castello. Da tutto questo ci si può fare una idea della ricchezza accumulatosi in quei tempi presso quelle famiglie.

Mentre stavo nel giardino Rufolo assistetti ad un meraviglioso fenomeno di luce sul mare. Il sole tramontava. I monti sopra Paestum e Salerno impallidivano già per prendere un vellutato colore verdescuro. Sopra Paestum, molto in alto, una immensa nuvola bianca tutta accesa dall’ardore di fuoco del tramonto somigliava ad una rosa incandescente che si estendeva sempre di più nel cielo; e proiettava la sua luce sopra il mare, incendiando tutto il vasto golfo di Salerno, indorandosi poco a poco, attraversata di strisce di color verde pallido, passando dal viola, al giallastro, ed al grigio ed infine spegnendosi.

Potrei raccontare ancora molte cose su Ravello, specialmente sull’antico Duomo che Niccolò Rufolo fece costruire una cattedra dai singolari mosaici ed antiche porte in bronzo e dove, in una ampolla, il sangue di san Pantaleone diventa liquido come quello di san Gennaro; ma ora basta, perché non si deve né vedere né raccontar troppo.