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Angel de
Saavedra, duca di Rivas
(1844) |
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Angel de Saavedra, duca di Rivas (1791-1865)
Angel de Saavedra, duca di Rivas
(1791-1865), uno dei massimi rappresentanti
della cultura romantica in Spagna, fu poeta
e pittore e ricoperse numerosi incarichi
politici. Fu amabasciatore di Spagna a
Napoli dal 1844 al 1850 ed ebbe modo di
conoscere tutta la regione. Tra la primavera
e l’estate del 1844 compì escursioni, di cui
lasciò resoconti scritti: Viaje al Vesubio e
Viaje à las ruinas de Pesto. Proprio in
occasione della visita ai templi, il
letterato iberico trovò il tempo per una
lunga escursione sulla Costa, da Pagani
(raggiunta in treno da Napoli) a Tramonti,
Maiori, Minori, Atrani, Amalfi (dove
pernottò ai Cappuccini); la mattina seguente
visitò la Valle dei Mulini, e, su asini,
Atrani e, a piedi, a Ravello, da cui ritornò
per il pranzo ad Amalfi e da dove ripartì
per Salerno che raggiunse per mare in un
paio d’ore. |
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A Pagani
noleggiammo dei cavalli locali, piccoli ma
forti e focosi, e con essi ci arrampicammo
per un’altissima montagna i cui erti fianchi
sono coperti di castagni e di folti sterpeti.
Fra di essi serpeggia una buona mulattiera
costruita con molta perizia e dalle cui
svolte si scoprono mirabili punti di vista.
Sulla vetta della montagna spicca la torre
di Chiunzi, osservatorio circolare
antichissimo, che oggi serve di nido agli
avvoltoi e di bersaglio alle tempeste,
giacché si vedono le frequenti tracce del
fulmine nei suoi blocchi di pietra. Passando
per un’osteria ai piedi del torrione
diroccato, ci separammo dalla vista del
Vesuvio, e, doppiando la cima, iniziammo la
discesa per coste meno ripide, attraverso
graziose colline coperte di vegetazione,
attraverso vigne sviluppatissime, formanti
sempre festoni allacciati agli alberi, e
attraverso folti boschi di alti faggi e di
fronzuti castagni, e così sboccammo nella
valle di Tramonti. La fervida fantasia del
più fecondo artista non potrebbe immaginare
un luogo sì delizioso e pittoresco. Ambo i
versanti sono popolati di leggiadre casine
di campagna, di appezzamenti di terra
intelligentemente coltivati, di alberi
corpulenti e frondosissimi. Corre nel fondo
della gola un copioso torrente, sfruttato da
numerose cartiere stabilite lì. La varietà
ed eleganza delle costruzioni con cui
comunicano, e i terrapieni e gli acquedotti
capricciosi, che van da un lato all’altro
per contenere o condurre le acque, le
cateratte e i precipizi formati dalle acque
superflue, e il frastuono delle ruote delle
macchine idrauliche, e lo strepito della
moltitudine di operai impiegati in quelle
manifatture formano un’insieme così
caratteristico, così vario, così
sorprendente che è impossibile darne un’idea
in una fredda descrizione. Maiori, villaggio
dai bei casamenti a due e tre piani, con
strade assai pulite e molto ben pavimentate,
è collocato all’imbocco di questa valle, e
sulle sponde del mare. |
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Maiori |
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Una piccola
cala offre ricovero alle sue barche da
pesca. Lo attraversammo, e il golfo di
Salerno si presentò alla nostra vista,
deserto, triste e maestoso. Prendendo a
destra una magnifica massicciata costruita a
mezza costa delle montagne strapiombanti che
formano la costiera, e molto simile a quella
che conduce da Caleglia a Barcellona,
pervenimmo a Minori, villaggetto della
stessa fisionomia del precedente, situato
anch’esso alle foci di un’amena valle. Due
miglia dopo, e quasi nella stessa giacitura,
attraversammo Atrani, paese più grande di
quelli nominati prima e presunta patria del
famoso Masaniello. La gente designa come
casa di lui un’abitazione tuttora occupata e
di aspetto povero ma lindo, che si leva su
un’erta balza, fra altre quasi uguali che
popolano quei monti.
Svoltammo indi
in una punta dove sono i resti di un antico
castelletto, e giungemmo alla famosa città
di Amalfi, che fu rivale di Pisa ed emula
della opulenta Genova e della potente
Venezia; che ebbe tanta parte nelle
crociate, durante le quale fu fondatore del
celebre ordine di San Giovanni di
Gerusalemme che meritò in fine il fastoso
epiteto di Regina dei mari. Ma quanto son
mutati i tempi! Non si concepisce nemmeno
come un piccolo paese, che può appena
raccogliere 7.000 abitanti, collocato nella
stretta gola di un’angusta valle, dove c’è
solo lo scarso spazio per gli attuali
fabbricati, circondato di erti ed alti
monti, con una ridottissima cala, senza
fondale e senza difesa, aperta ai venti di
ponente e di sud violentissimi in questi
mari, abbia potuto essere una città di
60.000 abitanti, il magazzino delle
ricchezze del mondo, e uno dei porti famosi
e più frequenti dell’antichità. No, non vi
si scorge alcuna di quelle tracce
dell’opulenza e del potere che si trovano in
altre città decadute e dirute. Non vi è
nemmeno una sola casa antica, non ce n’è
alcuna vasta ed ampia, non esistono neppure
frammenti di mura, di fondali, di moli, di
terrapieni; di quelle opere infine
indispensabili per ogni porto mercantile, a
difesa dei vascelli, a riparo delle
mercanzie, a tutela della ricchezza, a
dimora dell’opulenza. Costa perfino fatica
il credere che lì vi sia mai stato potere e
prosperità. In Pisa decaduta e quasi deserta
si vedono lunghe ed ampie vie, superbi
palazzi, robuste torri e mura, magnifici
ponti, moli, argini, infine, lo scheletro di
un gigante; ma ad Amalfi… Etiam periere
ruinae. Non esistono lì se non due archi
diruti presso la marina, e il vestibolo
della cattedrale dove si sale per un’ampia
scalinata moderna di quaranta gradini. Il
cicerone che ci accompagnava capì senza
dubbio queste riflessioni e ci disse con
molta gravità che la città antica era
fondata sul mare e che questo se l’era
inghiottita: avvenimento, di cui la storia
non parla e del quale sarebbero rimaste
tracce nel mare stesso, e, proprio al
contrario la piccola cala di Amalfi offre in
tutta la sua estensione un fondo liscio, di
ciottoli e arena, senza il minimo indizio di
fondazioni antiche. In questa città si
trovarono per caso, ed in seguito ad un
saccheggio nell’anno 1135, le Pandette di
Giustiniano, e in essa nacque Flavio Gioia,
inventore della bussola. Sembra indubbio che
Amalfi, fondata in epoca molto remota, fu
occupata dai Saraceni la prima volta che
invasero l’Italia; che i tempi del suo
maggior splendore furono i secoli X e XI;
che la conquistò Ruggiero, duca di Calabria,
e che la decadenza cominciò con le accanite
guerre sostenute coi salernitani, suoi
vicini e giunse a tal grado di
annichilimento e di sfortuna, che la città
fu completamente distrutta da pirati i
quali, due volte la diedero alle fiamme e la
saccheggiarono. E poiché il suo territorio
non produce nulla, la città morì col
rompersi dei suoi telai, col rovinare dei
suoi fondachi, col cessar di offrire
sicurezza ai mercanti.
Alla destra di
Amalfi, sopra rocce elevate che guardano il
mare, un convento di cappuccini, al quale si
sale per una stretta e penosa scalinata di
270 gradini. |
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Amalfi - Cappucini |
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Vi fummo
sull’annottare, e mentre ci avvicinavamo
udimmo le note dell’organo che facevano un
effetto meraviglioso tra quelle rupi, le cui
forme rudi e i cui contorni colossali
presentavano una massa imponente e confusa,
alla incerta luce del crepuscolo moribondo:
ricordammo alcune scene del Don Alvaro,
ed entrammo nella povera e meschina chiesa
quando i frati, in coro, cantavano conpieta.
La possente armonia del fragoroso strumento
e il canto della comunità non mancarono di
commuoverci, a quell’ora e in quel devoto
segregato ed umile santuario. Subito il
guardiano seppe che c’erano dei forestieri
nel suo convento, inviò due frati ad
ossequiarci e a fare gli onori di casa. Ci
offrirono un rinfresco, che non accettammo,
ci mostrarono un chiostro antichissimo dalle
ogive rudi e piccole sostenute da colonnine
geminate di stile arabo, poi, alla luce di
una torcia a vento, una magnifica e capace
grotta che è nella montagna e quando ci
congedammo mandarono un laico che ci facesse
luce con un fanaletto per scendere la
gradinata. Non era certo questo laico il
fratello di Melitone, perché non schiuse le
labbra nel lungo tempo che impegnammo per la
discesa. Avvicinandoci alla marina, sentimmo
un mandolino suonato non male, e un rumore
di allegra gazzarra; ma siccome la notte era
scurissima, da lontano non potevamo
intravedere né il suonatore né coloro che
causavano quel chiasso. Giunti alla spiaggia
e congedandoci da chi ci aveva fatto luce,
notammo che il musicante stava in una barca
tirata a secco che attorno al lui dei
marinai e delle ragazze del popolo ballavano
secondo la loro usanza. Tutto ciò era nel
buio, e dava quindi un’apparenza assai
fantastica. Entrammo in un mediocre albergo,
dove divorammo un abominevole cena, e ci
abbandonammo sfiniti dalla stanchezza, ad un
profondo sonno.
Il giorno
seguente, alle otto della mattina, andammo a
vedere l’interno della valle al cui sbocco è
situata Amalfi, chiamata Valle dei Mulini.
Quantunque di minore estensione, è assai
simile a quella di Tramonti, ed è anche
popolata di fabbriche di carta, ed
altrettanto amena e pittoresca benché non
così ferace e produttiva. Indi su asina con
sella e briglia all’inglese ci recammo ad
Atrani (l’ultimo villaggio che avevamo
attraversato la sera precedente) e
internandoci in esso abbandonammo le nostre
umili cavalcature per salire a piedi, con
gran caldo e fatica, una penosissima
scalinata di due miglia di lunghezza che
monta a Ravello, paesetto fondato su una
delle eminenze più elevate di quel monte e
da dove si abbraccia una spaziosa e
magnifica vista. Vi si incontrano, fra le
umili case moderne, importanti vestigi della
effimera dominazione saracena; e in vari
frammenti di mura dirute, e in un cortile
che si conserva quasi intero, e in altri
ruderi interessanti, riconobbi l’infanzia
di quell’arte, che apparve poi con tanto
splendore, nella nostra Cattedrale di
Cordova, nella Giralda di Siviglia, e negli
incantati palazzi di Granada. Vi sono nella
chiesa di Ravello delle porte di bronzo
assai notevoli, un ambone quadrato e
spazioso rivestito di mosaico e poggiante su
sei colonne le cui basi sono rozzi leoni di
marmo, e diverse lapidi di varie epoche.
Lasciammo quella alpestre località, e
discendendo a gran fatica la interminabile
scalea, tornammo a cavalcare i nostri asini
inglesizzati e ci recammo di nuovo ad
Amalfi. Mangiammo con appetito, schiacciammo
un lungo pisolino e alle tre pomeridiane
partimmo per Salerno. Esiste una strada a
metà costruita, che seguendo la sinuosità
della dirupata costa va da una città
all’altra; ma è lunga e penosa, e preferimmo
fare il viaggio per mare.
Prendemmo
quindi una leggera barca a quattro remi,
abbondantemente dipinta di bianco, verde e
rosso, colla sua pulita tenda di cotonina
bianca. Uscendo dall’albergo, due padri
cappuccini dall’aspetto davvero molto
venerabile ci chiesero con umiltà, che
facessimo loro la carità di condurli a
Salerno. Acconsentimmo di buon grado e
scendemmo con essi alla marina. Quella che
si chiamò Regina dei mari è giunta a tale
stato di decadenza, che non ha nemmeno un
misero pontile di legno sulla spiaggia
arenosa, ragion per cui l’imbarco fu
discretamente incomodo e sgradevole, avendo
dovuto effettuarlo, sotto pena di entrar
nell’acqua o per meglio dire nella melma
fino alla cintura, sui robusti omeri dei
marinai. Il mare sembrava di latte, il cielo
era fulgido e puro, attraversato da alcune
nuvolette luminose, l’atmosfera in calma
senza che la rinfrescasse la più lieve
brezzolina. La barca spinta dai quattro
remi, tuffati in cadenza dalle robuste
braccia dei quattro marinai con camicie
bianche come la neve, calzoncini corti
listati di azzurro e berretti rozzi, come
quelli che usavano i catalani, scivolava
rapida nel golfo cristallino, per doppiare
la punta dell’Orso. Avevamo a sinistra, a
circa due miglia di distanza, la costa
scoscesa di altissimi monti coperti di verde
e screziati di bianche abitazioni rustiche,
e Atrani e Minori e Maiori e altri ameni
paeselli collocati nelle gole delle valli, e
alla destra l’immensità del mare che
costituiva l’orizzonte e si confondeva col
cielo per mezzo di una nuvola vaporosa,
mentre tutto formava un quadro magnifico e
malinconico. I marinai, come per non perdere
la lena, intonarono una canzone in dialetto
napoletano, con voci distinte per nulla
discordanti, con un tono languido e monotono
molto simile a quello delle playras,
le canzoni marinaresche che si cantano in
Andalusia. I due cappuccini tiraron fuori i
loro breviari e con voce sommessa recitarono
le loro orazioni, e noi sognavamo svegli e
volavamo coll’immaginazione per mille
fantastiche regioni, immersi nel più
profondo silenzio. Sembrava quella barca in
mezzo al deserto golfo di Salerno l’emblema
dei differenti destini che la Provvidenza ha
segnato all’uomo: quello del lavoro, quello
dell’orazione e quello del pensiero; e tutti
diretti dallo stesso impulso e tutti
incamminati al medesimo fine. |
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